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pér San Lűrenz

pér San Lűrenz

“per San Lorenzo”
(“pér San Lűrenz”)

Era la fine del mese di luglio e un contadino di Case Stantini, tal Serafino della famiglia dei Gemián, era di passaggio lungo la strada che passa in mezzo al paese di Febbio. Tornava da Roncopianigi, dove era stato a ritirare due paia di scarponi che aveva fatto risuolare e rimborchettare da Giuanélla e’ scarpulìn il calzolaio della zona.

Per caso, incontrò Giacomo (Jacmìn di Pinèe”), un pastore di Febbio, che da diverso tempo aspettava di incontrarlo per chiedergli una cosa. Voleva sapere cosa ne facesse dell’erba che aveva su quel campetto, in località Prà Goccia, di proprietà della moglie Olimpia (la Limpia), che la stessa aveva ricevuto in eredità dalla sua famiglia.

Prà Goccia è una località posta circa a metà strada tra gli abitati di Febbio e di Case Stantini. Serafino, passando nelle vicinanze, vi aveva notato una bella lupinella: un’erba lunga e vigorosa. Avrebbe voluto mandarci a pascolare le sue due mucche bruna alpine.

Interpellò cosi Jacmìn di Pinèe, che però categoricamente rispose: «No perché, quel’erba a la tégn pér San Lűrenz» : no perché, quell’erba la tengo per San Lorenzo.

I campi o i prati vicini al paese erano custoditi gelosamente dai pastori di Febbio. Perché durante il giorno della sagra del patrono di Febbio, San Lorenzo martire, avrebbero mandato lì a pascolare le proprie pecore o mucche, e non sui monti come erano ancora soliti fare in quella stagione.

Tutti i Febbiesi emigrati per amore o per lavoro che pér San Lűrenz non mancavano mai di ritornare al loro paesello natìo.

Confraternita SS. Sacramento - Ricevuta (Documento, dall’archivio di famiglia dell’autore)
Confraternita del SS. Sacramento – Ricevuta (Documento, dall’archivio di famiglia dell’autore)

Lurenz d’Burtél, di Febbio originario, da tempo abitava in Garfagnana. Colà si era sposato e sentendosi ancora febbiese e non garfagnino, manteneva l’iscrizione alla Confraternita del SS. Sacramento, congregazione religiosa della parrocchia di Febbio, come si evince dalla ricevuta, messa qui a fianco, fatta nel luglio del 1926.
Da Corfino nell’alta Garfagnana dove abitava, pér San Lurenz, con la sua miccia e la figlia più grande Andreina, raggiungeva sempre il paese natio. A Febbio aveva molti nipoti. Era sua consuetudine, portare a questi figli dei fratelli qualche piccolo regalo dalla Garfagnana, anche solo mezzo soldo, che avrebbero subito speso per San Lorenzo.

Anche la Catìra d’Mingùn accompagnata dal marito di Brica di Metello, paese dell’alta valle garfagnina di Soraggio, da poco sposata, o Masera di Mundìn con la sua bella ed abbiente moglie anch’essa garfagnina erano rientrati da alcuni giorni presso i loro parenti di Febbio per festeggiare il
Santo Patrono.

C’era poi chi, si era sposato più nelle vicinanze, come al Casalino nel Ligonchiese, ed a Coriano. Oppure chi si era sposato ancor più vicino: dai balocc, borgate della frazione di Asta. Anche questi, per quell’occasione, erano graditi ospiti di parenti e conoscenti.

Per esempio, Pêdre de Casalin aveva sposato una donna di Monteorsaro. Pighìn da Rumpianis conobbe la moglie Celsa andando a raccogliere le castagne dai balugán, (così venivano chiamati gli abitanti di Montefiorino e dintorni). Oppure Cesare d’Asta (Cesrún da Cà di Balocc) aveva sposato la Maria di Case Stantini la quale era nata a Marsiglia in Francia all’inizio del ventesimo secolo. Infine ricordiamo Delmo da Curiãn che aveva sposato l’Ida dei Gebennini di Monteorsaro. Tutti non vedevano l’ora di mettere i piedi sotto la tavola dei parenti duranti i festeggiamenti pér San Lűrenz.

Febbiese che è andata a fare la badante a Marsiglia in Francia (dall’archivio di famiglia dell’autore)
Febbiese che è andata a fare la badante a Marsiglia in Francia (dall’archivio di famiglia dell’autore)

Vecchia foto di una febbiese che era andata a fare la serva e la balia in Francia a Marsiglia. Si presume nel quartiere di Montredon,frequentato appunto da gente emigrata dalla nostra montagna.
C’era chi, pér San Lűrenz, aveva anticipato, per abitudine e per necessità della famiglia, il ritorno a casa, già dai mesi di maggio e giugno, come le domestiche e le balie, dai più comuni luoghi di lavoro che erano le città di Genova, Milano, Lucca e, qualche volta, ritornavano anche quelle che erano andate più lontano, come in Francia a Marsiglia.

Per tutte le donne, quel mitico giorno, era l’occasione per indossare il vestito e le scarpe più belle che possedevano. Facevano attenzione a non rovinarle perché in quei tempi non vi erano a Febbio e neppure nei dintorni, strade asfaltate od acciottolate, ma solamente terra e sassi: polvere quando era caldo, e paciugo (pachiǚg) quando pioveva.

 

 

In tutte le case degli abitanti e nella parrocchia, le donne, al’ rašdûri, preparavano manicaretti locali, da mettere sulla tavola in casa, che per quell’occasione aveva anche la tovaglia. Pér San Lűrenz era abitudine mangiare tanto per quei tempi, oserei dire quasi sfamarsi. Tante erano anche quelle rašdûri che andavano ad aiutare la perpetua o la famiglia del parroco, per la preparazione di queste prelibate vivande, in canonica. Perché, abitualmente, tanti erano gli ospiti fatti venire dal parroco: dalle autorità comunali, ai carabinieri, a tutti i preti del circondario. A questi sacerdoti poi, non dispiaceva svolgere il loro ufficio in chiesa, tra la popolazione, ma anche con i piedi sotto la tavola.
Foto d’epoca, di una processione religiosa per la festività di San Lorenzo del 1947. Da notarsi i due carabinieri, che accompagnavano la statua del Santo, stando ai lati della stessa (dall’archivio di famiglia dell’autore)
Foto d’epoca, di una processione religiosa per la festività di San Lorenzo del 1947. Da notarsi i due carabinieri, che accompagnavano la statua del Santo, stando ai lati della stessa (dall’archivio di famiglia dell’autore)

Il pomeriggio del giorno precedente, i giovani del paese facevano a gara per pulire tutte le strade della borgata, in special modo la via di Margján, dove sarebbe passata, quasi alla fine della messa, la processione, con la statua del santo. Pulivano con cura anche l’Ažuria, il prato davanti alla chiesa nel quale, il mezzadro del prete, era solito falciare l’erba e quindi predisporlo per il suo attraversamento.

Quindi le donne o meglio le ragazze più giovani, procedevano lungo il percorso ripulito, con grossi cesti di vimini pieni di fiori di campo. Tutti belli, tutti coi petali aperti e con quei colori gialli, violacei, lillà, bianchi, vermigli, che trasmettevano gioia, fin dentro l’anima.

Questi fiori, boccioli e infiorescenze, venivano recisi nei prati, in ti saldùn o dietro ai fossi, in gran quantità.

Dal mattino arrivavano alla Parrocchia di Febbio, qui d’ Muntarsara, qui d’Rumpianïs e qui d’Cadistantin.
Qui d’Fiéb invece, erano già lì ad aspettarli.
La festa del patrono di Febbio era diversa da quella degli altri paesi dove la loro festa patronale la trasformavano quasi come una fiera, invitando saltimbanchi, giocolieri rinomati, a volte anche teatranti e che durava dai tre ai quattro giorni.
La nostra sagra, era solamente una grossa festa, la più grossa di tutto l’anno, la più sentita ed anche la più desiderata da tutti e soprattutto dai bambini: l’era pér San Lűrenz.

Sul sagrato della chiesa si posizionavano, quasi a scacchiera, i vari venditori ambulanti con i loro banchetti e la loro mercanzia. Molti venivano dal civaghino e parte della loro mercanzia se la procuravano nella confinante Garfagnana. Come non ricordare quella vecchietta di una borgata di Civago, che con due o forse tre, grossi fagotti annodati, portava quei pochi giocattoli, assieme ai bottoni o pettini o specchietti, o anche nastri, ditali e ferri da maglia.
Altri da paesi più vicini, come dalle borgate stesse della parrocchia e da quelle di tutta la valle d’Asta, come quel vecchietto di Case Stantini che la sua mercanzia, molto similare a quella della sua collega civaghina, la portava dentro ad una cassetta e che trasportava in spalla, a mò di zaino.

C’era chi vendeva anche roba da mangiare, tipo dolciumi e quant’altro s’addiceva e s’addice tuttora, al minuto commercio in tali occasioni. C’era pure chi vendeva frutta in genere, in particolare cocomeri interi ed a fette. A tal proposito si potevano vedere, sempre sul sagrato, asini o muli con il loro carico di frutta e verdura, posto nei due cestoni, che ciondolavano ai lati del loro basto. In particolare viene tramandato il ricordo di una di quelle bestie da soma, era l’asino di Diego da Villa, che aveva una caratteristica riga bianca.

Gli ambulanti di una volta barattavano spesso la loro merce, anche con delle uova, che i parrocchiani febbiesi avevano opportunamente tenuto in serbo.

Infine c’era il carretto dei gelati, con il consueto assortimento : panna, limone e a volte anche cioccolata.

Le campane della chiesa di Febbio, come d’altronde tutte quelle delle parrocchiali della nostra montagna, all’epoca e, come ora, annunciavano le ore e primariamente il mezzodì utile ai contadini ed ai pastori per capire quando era pronto e’ sõvre, il pranzo di mezzogiorno. Ma la mattina di San Lorenzo le campane del campanile suonavano a distesa, e si potevano sentire per tutta la valle, subito con i dupi che preannunciavano l’ultima Messa (“La Mĕsa Granda”).
Suonavano anche per l’entrata in chiesa con le donne che entravano dalla porta principale e gli uomini da quella secondaria, posta a ovest, lato del campanile. I due chierichetti, più meritevoli, Manlio da Rumpianïs e Nani da Cà di Stantìn, i soliti due, quel mattino, erano contenti perché la perpetua gli preparava, tra la prima e l’ultima messa, una colazione che a casa loro se la sognavano. Infatti in un profumatissimo caffelatte, intingevano una ciambella che se la ricordavano, per mesi e mesi, da tanto che era buona. Durante la processione venivano ripetuti i rintocchi a festa, che si mescolavano ai canti dei preti officianti ed a quelli dei confratelli e delle consorelle. Questi, sia gli uomini che le donne, vestivano
con gli abiti che per quelle occasioni implicavano.

C’erano poi anche i più piccoli: ‘i luigini’ e le più piccole: ‘le luigine’, per dare più enfasi alla festa religiosa. I febbiesi erano particolarmente devoti anche a San Luigi Gonzaga, tra l’altro lo festeggiavano e tentano di festeggiarlo tuttora, il 21 del mese di Giugno.

Per finire, le campane di Febbio tornavano a risuonare nel pomeriggio per le cerimonie religiose del vespro, dove anche in quella liturgica occasione, tra le ampie mura ed alte volte della nuova chiesa, si risentivano i canti dei preti convenuti pér San Lűrenz, assieme ai parrocchiani che numerosi, all’epoca, facevano ritorno anche nel pomeriggio per il canto dei vespri.

Dopo il vespro, iniziava la sagra non più propriamente religiosa, ma quella cosiddetta ‘pagana’: chi ritornava alle proprie case e davanti a fiaschi di buon toscano maremmano continuava il canto, con stornelli e canti tradizionali, o chi andava a fare quattro salti, presso qualche osteria o in qualche aia, con i sunadür, i suonatori.

Tutto ciò succedeva nella parrocchia di Febbio, una volta, il 10 del mese di Agosto.

Per San Lorenzo (”pér San Lűrenz”).

 

 

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