Era l’anno 1923 quando nacque Domenico Attilio Zambonini, ultimo genito di una famiglia come tante altre; una famiglia di contadini e maniscalchi composta da quattro figli, in un paesino di montagna, lontano da tutto, dove l’agricoltura era misera, molta neve.
Si sa che la montagna allora non offriva molto, tanto lavoro e poca resa; la scuola c’era e non c’era ed era così per tutti. Ma finché si era bimbi ci si stava forse bene ma crescendo non bastava più: c’era tanta povertà e le ragazze andavano a fare le donne di servizio a Genova e Milano. Per gli uomini era peggio. Poi arrivò la guerra.
Nel 1942 Domenico fu arruolato di leva, giunse alle armi il 18/01/1943, fu fatto prigioniero in Germania, riuscì a scappare e finalmente nel 1946 (il 15 luglio) fu congedato. Tornato a casa, ci fu un’amara sorpresa: non c’era più posto per lui, quelli che erano rimasti a casa avevano una famiglia, e il lavoro bastava appena per loro. Gli uomini, i ragazzi bevevano perché c’era poco o nient’altro da fare. Fu allora che si parlò del lavoro all’estero. C’è chi partì per l’America, chi per la Francia e Attilio partì per il Belgio senza esitare. Alcuni accordi stipulati tra Italia e Belgio convinsero molte persone a fare questa scelta. L’Italia mandava in Belgio la manodopera e il Belgio in cambio spediva una certa quantità di carbone. Papà non ci pensò su molto (non aveva molta scelta!!!) ed insieme ad altri partì; c’era Adelmo Pieroni di Case Balocchi e i fratelli Cecchelani di Calizzo (Pierino e Pasquino). Senz’altro partirono anche tanti altri di Gazzano e Fonatanluccia ma io non ho i loro nomi.
Mio padre iniziò a lavorare il 13/01/1956.
Finirono tutti in Belgio a Mons, dans le Borinage à Charleroi. Il Belgio era tutta una miniera e quelli del posto non volevano andare sottoterra, o almeno pochissimi ci andavano perché avevano paura, era un lavoro sporco e pericoloso.
E fu così che fecero la visita medica agli italiani e tutti gli idonei firmarono un contratto di 3 anni. Tutti questi uomini avevano lasciato il loro paesino con “niente” nella valigia ma con la testa piena di speranza.
Mio padre raccontava che vivevano in grandi stanzoni, mangiavano in questi locali chiamati cantine dove erano “curati” da ragazze emigrate anche loro in Belgio. Iniziarono così una vita nuova, il lavoro veramente duro, sottoterra, il buio spaventoso, la polvere del carbone, questa fuliggine unta che ti faceva prurito alla gola e che non cessava neanche quando eri fuori, la paura quotidiana di non poter tornare in superficie, di non rivedere il sole, la scarsa conoscenza del francese, un po’ tutto l’insieme mio padre mi raccontava, e che per questo tentò di scappare, di tornare in Italia. Salì così sul treno ma non fece neanche in tempo a partire che con sorpresa incontrò i poliziotti venuti a prenderlo, a recuperarlo!!!
Zambonini aveva firmato un contratto di 3 anni e per 3 anni doveva stare lì, a marcire nella miniera!!!
Il lavoro in miniera era duro e sempre uguale: si andava su e giù con un ascensore, nel cuore della terra o così sembrava, ognuno con la sua lampada e l’elmo e lo zaino col mangiare, e picconavano e picconavano per riempire i vagoncini, e si scavava, e si facevano gallerie nuove, e si scavava, e sempre col cuore in gola perché c’era il ricordo di Marcinelle, il grisou sempre in agguato, e Marcinelle, e i tuoi amici morti lì sotto, e il dolore delle mogli,e tanti li conoscevi. E poi subito non è che prendessero una gran paga.
Col passar degli anni i rapporti con gli abitanti del luogo migliorarono ma quant’era difficile superare tutte le difficoltà. E la lingua? Non capivano niente di francese e vivevano un po’ in modo chiuso: c’erano i gruppi di soli italiani; dopo sono nati i quartieri italiani, i quartieri turchi, e via via tutti gli altri. Ci si arrangiava per mantenere le tradizioni di casa, ognuno si ricreava la sua patria, il suo paesino. Papà aveva nel 1965 comprato una “Casa della mina”: erano case costruite dalla Compagnie des Charbonnages per i minatori (un po come le case popolari); era una casa in periferia con tanta terra intorno, era il sogno di mio padre perché poteva coltivare il suo orto, allevare le galline, le anatre, i conigli e i colombi. Si era ricreato il suo mondo. Era un po’ lontano da tutto e da tutti.
Poco per volta la volta migliorò, Domenico come gli altri imparò il francese (il Belgio faceva dei corsi serali) e poi nel febbraio del 1958 si sposò con una italiana anche lei emigrata in Belgio in cerca di fortuna. Lo stipendio migliorò e così Domenico iniziò a mandare i soldi in Italia, a Case Balocchi per creare qualcosa di suo e forse con la speranza di poter tornare a casa. Nacquero i figli, quattro figli che non potevano parlare in italiano: e questo spiega tante cose, il sentimento di inferiorità di mio padre nei confronti della lingua francese e degli abitanti del Belgio.
Lui diceva che dovevamo sapere solo il francese. Il Belgio aveva messo a disposizione dei bambini un sistema scolastico funzionante, c’erano tanti stranieri ma tutti avevano gli stessi diritti agli studi, la scuola era statale ed eravamo agevolati in tante cose: non si pagavano i libri di testo. I figli degli immigrati in Belgio e specialmente noi italiani eravamo considerati come Belgi e all’età di 16 anni il comune ci chiedeva di diventare cittadini del Belgio gratuitamente!
Negli anni ’80 il clima cambiò perché gli autoctoni erano una minoranza, rappresentavano solo il 10% della popolazione e si sentirono un po’ braccati, come in trincea.
Lo stato italiano non ha mai aiutato le famiglie emigrate in Belgio e quando io, una figlia di emigrato sono rientrata in patria perché sentivo che il mio mondo era qua, perché mio padre mi aveva sempre raccontato tutto della sua infanzia, della sua gioventù, senza volerlo mi aveva trasmesso il suo grande amore per Case Balocchi e quando si parlava tanto di reinserire i figli degli emigrati in montagna per ripopolarla non ho mai ricevuto aiuto, anzi la politica era farti sentire come una persona che dava fastidio. Ma 23 anni dopo [il testo è stato scritto nel 2003] sono molto orgogliosa di essere ancora a casa e anche se so che in Belgio avrei avuto una brillante carriera sono molto felice della mia scelta!
Mi dispiace solo che Papà non ha potuto finire la sua vita a Case Balocchi come voleva ardentemente e che non ha neanche avuto la fortuna di poter riposare in pace vicino alla sua mamma e al suo papà.
Quando penso a mio padre, lo rivedo ancora come era la domenica mattina: era d’obbligo la camicia bianca e mezzora dopo aver fatto il bagno questa bella camicia bianca diventava tutta nera nel collo e gli occhi verdi di mio padre diventavano lucidi e ancora più intensi perché saltava fuori tutta la polvere del carbone, sembravano truccati.
Sono morti tutti giovani e comunque si sono ammalati tutti; ci sono ancora delle miniere aperte e ci sono ancora dei giovani italiani figli di minatori che lavorano in miniera e prendono uno stipendio alto, ma ne vale la pena?
Marie-Thérèse Zambonini
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