Non è una fola, ma un episodio realmente accaduto, raccontato, come trasportato alle orecchie dell’autore.
FATTO ASSURDO PER OGGI GIORNO, MA ALL’EPOCA, PURTROPPO, ACCADEVANO SUL SERIO. IL TUTTO POSTO IN UN QUADRO DI VITA FAMILIAR, DELL’INIZIO DEL SECOLO SCORSO:
“Santìn d’Montarsara”
“Santìn” di Monteorsaro, faceva parte di una di quelle poche famiglie di Monteorsaro, che non vivevano di sola pastorizia, ma di quel poco che la terra, a quell’altezza, poteva dare, e cioè: patate, segale e pochissimo altro. In più, facevano i taglialegna, i carbonai ed erano maestri artigiani nella costruzione di oggetti per il lavoro e per la casa in legno di faggio.
Le poche pale di legno per splare la neve che si trovano ancora in Val d’Asta, la maggior parte di esse, assieme a ‘vassure’ o ‘pistarelle’ per la battitura del grasso di maiale, tutti oggetti di casalinga dimestichezza, non più di uso nelle nostre case e cucine, sono state eseguite da “Santin da Muntarsara” e da altri taglialegna anch’essi sempre del paese il più alto della Val d’Asta.
“Santìn” viene ricordato per la sua irascibilità ed anche per l’ubriachezza, che ‘erano di moda’ in quegli anni. Parliamo degli anni 1925/26 circa. Quasi cento anni fa.
Il nostro capofamiglia di Monteorsaro, aveva fatto fare a sua figlia “Minghina”, che all’epoca era una giovinetta di 15/16 anni, un paio di scarpe nuove al calzolaio di Roncopianigi, tale “Giovannella”.-
Allora le scarpe non si compravano ancora nei negozi, ammesso che in zona ci fossero stati, ma si facevano fare a bravi artigiani calzolai che, se non in tutti i paesi, ma in molti paesi si trovavano.- Questi creatori, quasi artisti, con tenacia e fantasia inventiva, portavano avanti le loro attività piene di dignità, dentro a quelle piccole, a volte piccolissime botteghe. Erano, quasi sempre buie ed affumicate dai fumi del cuoio “e’ cûram” abbrustolito per ingentilirlo o dagli spaghi scaldati sopra a piccoli lumicini accesi di stoppia, alimentati a “canfìn”, al fianco dei loro banchetti di lavoro.
La ”Minghina” una domenica chiese al padre se poteva andare a messa a Febbio, con le amiche della borgata di Monteorsaro, e di poter calzare le nuove scarpe. Quelle che lui, aveva fatto fare al calzolaio di Roncopianigi e che la sera prima, ritornando dall’Abetina Reale, dove era stato assieme a compaesani a spezzare legna tutto il giorno, per conto di una grossa ditta di Modena che aveva acquistato quei boschi da tagliare, aveva portato a casa, riempiendo di gioia la figlia più grande.
“Santìn” gli dette il permesso, con l’osservanza però di non sciuparle. O più precisamente di non sciuparle ulteriormente al normale consumo, per lui. Cioè di cavarsele dopo la fine della messa, all’uscita dalla chiesa a Febbio e di ritornare a casa a Monteorsaro a piedi nudi, circa due chilometri, lungo una stradina mulattiera in forte pendenza, e su terra sconnessa e pietraie.- Purtroppo, la ”Minghina” se le scordò, o se le ‘volle scordare’, ai piedi tutto il giorno.
Alla sera della domenica, il padre ritornò a casa dall’osteria di Monteorsaro o di qualche altro paese prossimo, non lo abbiamo saputo con precisione, un po’ alticcio. Così arrivavano a casa quasi tutti ed in quasi tutti i paesi, chi più chi meno, nei giorni di festa, dopo aver alzato il gomito un pò più del solito.
E “Santìn” vedendo che la sua“Minghina” non aveva rispettato quanto da lui consegnato al mattino, come fece ad accorgersi non ci è dato di saperlo, visto che le scarpe erano nuove e che lo sciupio di un viaggio a Febbio, senza quello di ritorno, era molto difficile da notarsi. Forse, lo seppe da una qualche amica della ragazza, invidiosa di aver visto la “Minghina” con le scarpe nuove. Non la picchiò, come faceva spesso, ma prese le scarpe e con l’accetta che teneva sempre in casa a portata di mano, fece, le scarpe, a pezzi e a striscie, rovinandole completamente.-
L’indomani, stemperate sia la sbornia, che l’irritazione, finite nella rabbia per la mancata ubbidienza da parte della figlia, con la conseguente distruzione delle nuove scarpe, che la povera “Minghina” con tanta felicità aveva calzato ed altrettanto contentezza aveva fatto vedere alle amiche, riprese la strada, in discesa, per Roncopianigi.
“Santìn” ritornò alla bottega di “Giovannella” e allo stesso, si pensa, spiegasse quanto era successo, richiedendogli, dietro nuovo compenso, ovviamente, di rifare le scarpe per sua figlia.- Poi come molte giovinette del paese e della vallata, la “Minghina” , fu mandata a ’servizio’ presso famiglie facoltose, in quel di Genova.
Gianpaolo Gebennini
IN CORSIVO SCRITTE IN DIALETTO FEBBIESE
Questo racconto, l’autore l’ha attinto dalle sue memorie e da quanto gli è stato raccontato, e poi ‘mischiato’ dalla sua fantasia. Pertanto eventuali allusioni a fatti o persone realmente esistite, sono da ritenersi puramente casuali