AL MULINO DI ROCCO,
UNA NOTTE, AL TEMPO DEI PARTIGIANI
(a e’ mύlin d’ Ròc, una nót, a e’ temp di ribée)
Saranno state le nove, forse le nove/nove e trenta di sera, quando Rocco e i suoi due figli, che si stavano accingendo ad andare a letto, sentirono bussare molto forte alla porta d’ingresso.
Il mulino di Rocco, quel vecchio fabbricato che stava, e sta, tra gli abitati di Febbio e Roncopianigi, per intenderci, aveva tre macine in due edifici diversi, uno susseguente all’altro: nel primo, dove abitavano, c’era anche l’osteria, e due macine. La terza macina, di riserva, era nel secondo fabbricato più a valle.
Quella sera Rocco, un po’ sorpreso, sia per l’orario, che per l’energica bussata, andò con attenzione ad aprire la porta. Dopo averla aperta si trovò di fronte tre personaggi, armati dalla testa ai piedi, che non aveva mai visto.
In quel tempo di guerra e di resistenza, iniziava a vagare sui nostri monti e nelle vicinanze dei nostri paesi, gente quasi tutta proveniente dalla bassa, che, dopo il famoso 8 settembre, aveva deciso di resistere all’occupazione di quei signori stranieri, che, fino a poco tempo prima, erano nostri alleati. Erano i partigiani, che i nostri montanari, un po’ sottovoce perché sgomenti, chiamavano i ‘ribelli’, “i ribée” in dialetto nostrano.
I tre inaspettati avventori, entrarono, senza presentarsi, perché il loro biglietto da visita era, innanzitutto, il loro abbigliamento: vestiti in borghese, uno aveva infilato alla cintura delle bombe e una pistola a tamburo; un altro, che indossava dei calzoni alla zuava, era addirittura avvolto dal nastro della mitragliatrice come un rivoluzionario messicano al tempo di Zapata; il terzo, con dei pantaloni grigi armato di rivoltella e dal piglio deciso, senz’altro il capo dei tre. Con il loro modo di fare, senza fronzoli e con prepotenza, sbatterono le loro armi sul tavolo, e, autoritariamente si rivolsero al mugnaio nel dialetto della nostra pianura, ordinandogli:
”Munéř, ghiv d’la farina? Perché a’ vlóm dal pan!”
(Mugnaio, avete della farina? Perché vogliamo del pane.)
Il mugnaio era vedovo e gli era rimasto da assistere, oltre che il mulino e l’osteria, anche due figli, uno maschio e una femmina, ambedue adolescenti, che, da un po’, avevano iniziato ad aiutarlo. Questi due giovani non ebbero subito paura, perché ormai erano abituati a vedere presso la loro casa, ogni tanto, gente non del posto, ma quella sera e poi così all’improvviso e ad un orario non proprio consueto per ricevere avventori, si avvertì immediatamente che i loro occhi erano intimoriti. Forse il mugnaio avrebbe voluto che i due giovani fossero andati a letto, ma, preoccupato da quei tre tipi sinistri, non ebbe il tempo di dir loro nulla, e andò subito nella dispensa a prendere la farina.
Nel frattempo, i tre partigiani avevano spostato le loro armi dalla tavola, dove le avevano messe appena arrivati dentro, scansandole a ridosso di una parete vicino alla porta d’ingresso, e, come se niente fosse, si tirarono su le maniche della camicia, pronti per impastare la farina. Arrivato il mugnaio con una paletta colma di farina, la rovesciò sul tavolo e, mentre uno dei ‘graditi’ ospiti era andato con un secchio a prendere l’acqua, gli altri iniziarono ad impastare, come credevano di sapere. Nel mentre il capo o quello che si riteneva tale, disse a Rocco di andare ad accendere il fuoco nel forno per scaldarlo perché il pane che stavano velocemente ed impasticciatamente amalgamando, lo avrebbero subito infornato. A tal proposito, timorosamente, il nostro mugnaio, nonché osteriante febbiese, disse loro che bisognava lasciar lievitare il pane impastato tutta la notte, o meglio almeno ciò che ne rimaneva, dato che, tra una cosa e l’altra, era già arrivata l’una dopo mezzanotte e che, al mattino avrebbero potuto infornarlo. Risposero, guardandosi le mani con appiccicato quella specie di impasto che stavano ‘cercando di preparare’, che non avevano tempo da perdere e quindi di sbrigarsi a scaldare il forno perché, prima che li raggiungesse l’alba volevano partire con il pane già cotto.
Sa ghîv da guardér?, te, putost, rivolgendosi al giovane maschio,
va aiutër to pedre, a scaldér al fóren,
(Cosa avete da guardare, tu, piuttosto, rivolgendosi al giovane maschio,
va ad aiutare tuo padre, a scaldare il forno.)
I due giovani, nonostante l’ora molto tarda, non accennavano per niente d’aver sonno e quindi di coricarsi, ma stavano impalati in un angolo di quella stanza, sempre con gli occhi sgranati a guardare tutta la scena, come fossero a teatro. Guardavano in special modo uno dei tre, dato che aveva gli occhi spiritati, forse perché la fame era un po’ che lo seguiva, lui più degli altri due.
Finché i tre partigiani riuscirono ‘in un qualche modo’ a preparare, con le loro sporche manacce, delle grosse e mal formi palle di pasta, che a fatica riuscivano a staccare dalle loro dita. Con l’aiuto del padrone di casa, lo infornarono non appena la volta in pietra del vecchio forno che stava sotto il portico, raggiunse la gradazione di calore che secondo loro andava bene. Quindi aspettarono seduti su di un muretto, al buio e al freddo, di fronte al forno, che il pane fosse cotto.
Alla fine, “i tri ribée” ficcarono dentro a dei sacchi che si erano portati al seguito, quella sorta di pagnotte di pane non lievitato, che si erano mostrate quando l’anziano mugnaio spostò la chiusura in ferro dalla bocca del forno, e che estrasse con la paletta di legno dal lungo manico.
Ripartirono con quelle scarpe rotte che facevano acqua da tutte le parti e con le quali lì erano arrivati, lasciando in casa quella puzza di ‘caprone’ che si erano portata dietro, che l’alba, appena, appena, stava per sorgere in fondo alla valle, laggiù dalle parti di Deusi e del sovrastante Monte Penna.
Questo breve racconto, è stato a me raccontato, da uno de protagonisti, e poi, in parte rielaborato e modificato dall'immaginazione dell’autore. Pertanto ogni allusione agli stessi è da ritenersi puramente casuale.