C’era una volta uno stregone
Bronchite? Dolori? Malocchio? Nessuna paura. Ci pensava lui a far passare i malanni della gente di montagna, lo stregone della Canalaccia, conosciuto anche come “Il Professore”, la cui fama di guaritore si diffuse non solo negli Appennini modenese, reggiano e lucchese, ma oltrepassò i confini della regione fino ad estendersi all’estero e addirittura oltre oceano.
Al secolo Giuseppe Silvio Tazzioli, tutto quello che sappiamo di lui lo dobbiamo alle lunghe ricerche del dottor Luigi Bonaldi, veterinario garfagnino appassionato di storie locali e di fatti e misfatti dell’Appennino tosco-emiliano.
Dopo aver letto i suoi libri “Lo stregone della Canalaccia” e “I misteri della Canalaccia”, mi sono recata nei luoghi dove visse lo stregone per entrare in simbiosi con l’ambiente in cui operava e immaginare gli avvenimenti che hanno caratterizzato la sua esistenza.
Eccomi quindi al cospetto di ciò che rimane della sua casa, un cumulo di pietre ormai ricoperte da terra ed erba. Esattamente al centro dell’area della casa è nata una pianta selvatica. Non so se attribuirlo a pura coincidenza oppure alla presenza dello spirito dello stregone, qui, nel luogo dove è nato e vissuto…
Sono alla Canalaccia di Piandelagotti in provincia di Modena, un luogo normale come tutti i piccoli borghi appartati di montagna e quasi totalmente disabitati, ma che nella mia mente assume un significato diverso, quasi mistico, essendo venuta qui con cognizione di causa. Una pioggerella leggera rende il luogo ancora più tetro.
Chiudo gli occhi, quasi a voler rivivere il passato e i segreti che le pietre custodiscono. Magicamente, queste pietre occultate dall’erba si trasformano in una piccola casa con un’aia. Vedo un drappello di gente raggruppata, in attesa di essere ricevuta dallo stregone. Io guardo la scena in disparte, mi aggiro fra di loro invisibile come un fantasma. Ascolto. C’è chi discute, chi sussurra speranze, chi invece, solo e intimorito, preferisce stare in silenzio con il capo chino e le mani in tasca e giocherellare con i piedi con un sassolino come se fosse una biglia.
Si aspetta.
Da una finestra, Silvio Tazzioli guarda la gente fuori. Si volta di spalle e continua a fare i suoi mestieri.
Si aspetta ancora.
La porta si apre, viene fuori un bell’uomo alto e con lunghi capelli biondi. Ignorando le persone che lo implorano di essere ricevute, si dirige in un angolino dietro la casa a prendere della legna. Al suo passaggio tre galline si fanno da parte. Incurante, torna dentro la casa con il suo piccolo carico di rami secchi. Delusione generale.
Niente. Si continua ad aspettare.
Finalmente la porta si riapre. La sua sagoma appare imponente sull’uscio. Guarda nella mia direzione, un angolo della sua bocca si piega in una smorfia di disappunto. I suoi occhi chiarissimi mi fissano come se volessero leggermi l’anima. Che sguardo inquietante… Che mi abbia vista? Impossibile. Lui fisicamente non è qui. Fa per tornare dentro, ma poi ci ripensa e con un gesto e un brontolìo invita un signore ad entrare con lui. La porta si richiude dietro di loro.
Riapro gli occhi e mi ritrovo sola con le pietre e la pianta selvatica; sono spariti tutti, casa, stregone, galline e persone.
Che bella cosa l’immaginazione…
Ma la storia dello stregone Silvio non è una leggenda inventata, è vita vissuta in un tempo non troppo lontano da noi, quando il progresso era già in atto ma nei paesi di montagna c’era ancora l’usanza di rivolgersi ai “maghi” per risolvere molti problemi. Ma i loro metodi funzionavano davvero? Non lo sapremo mai con certezza, ma le testimonianze delle persone guarite dal “Professore” Silvio non lascerebbero dubbi.
Superstizione o verità, conosciamo però la vita di Giuseppe Silvio Tazzioli, nato il 19 aprile del 1883 nell’osteria di famiglia detta Osteria della Ca’ nelle montagne fra Piandelagotti e Frassinoro. I genitori Carlo e Caterina gestivano la locanda, che rimase in attività fino agli anni cinquanta.
A fine ottocento, però, la crisi si fece sentire e la vita non era facile, soprattutto per le famiglie numerose come quella di Silvio (aveva infatti altri due fratelli e tre sorelle) e un bel giorno suo padre decise di tentare la fortuna all’estero, portando con sé il figlioletto Silvio appena quindicenne. Raggiunto il porto di Genova, si imbarcarono per Buenos Aires con la speranza di un futuro migliore, giungendo in Argentina dopo 24 lunghi giorni stipati come bestie in una nave stracarica di gente. Si stabilirono quindi a Vila Casilda vicino Rosario, nella vasta prateria della Pampa. Carlo trovò lavoro come bracciante in una fazenda, ma ben presto si trasferì a centinaia di chilometri di distanza, dove venne assunto in un’azienda vinicola di Mendoza ai piedi delle Ande, lasciando Silvio presso una tribù di indios.
Non si hanno notizie certe circa la sua permanenza presso gli indios, ma si ritiene che abbia imparato lì le pratiche di guaritore dai cosiddetti curanderos argentini. Si sa inoltre che dopo una quindicina d’anni si trasferì a San Francisco, dove conobbe l’illusionista Secondo Tomada originario di Udine che gli insegnò le tecniche dell’ipnosi, e che abbia perfezionato le sue conoscenze in Nord America quando vi si trasferì nel 1914, dopo un periodo di circa tre anni trascorso alla Canalaccia, per raggiungere suo fratello Settimo che nel frattempo si era stabilito a Seattle. La vita di emigranti non fu per niente facile per i due fratelli. Gli italiani venivano considerati “la parte più lurida di esseri umani mai sbarcati” (da un articolo del New York Times) e subivano continue umiliazioni e insulti. Dopo alcuni anni Silvio e Settimo si trasferirono nella zona montuosa delle Cascate, dove trovarono lavoro in un’azienda di legname che cercava manodopera.
Ma il richiamo delle proprie origini diventava ogni giorno più forte e all’età di trentotto anni decise di tornare definitivamente alla Canalaccia, portando con sé una valigia che conteneva oggetti per lui molto importanti: un violino, una pelliccia di bisonte, alcuni libri di magia e il progetto di un’arma, una specie di cannone che negli anni seguenti tentò inutilmente di brevettare: l’“Aschipetico Ruggente”.
Iniziò allora la sua attività di guaritore di uomini e animali. Si era infatti definito “Il Dottore che guarisce senza l’uso di medicine”. Occhi ipnotici e indagatori erano lo strumento con cui scrutava dentro le persone e leggeva il pensiero. Furono migliaia le persone che si rivolsero a lui per questo o quell’altro male, ma non chiese mai una lira per le sue prestazioni, al contrario di suo fratello Settimo che negli States era diventato un mago più potente di lui e aveva fatto fortuna. Anzi, si infuriava se qualcuno osava offrirgli del denaro, ma accettava piccoli doni in natura.
Aveva addirittura un “segretario” che si occupava di rispondere alle lettere che giungevano da ogni dove, con cui si richiedeva “udienza” al “Professore”. La sua notorietà crebbe grazie anche a vari articoli di giornale pubblicati su diverse testate nazionali ed estere.
Un giorno si riscoprì liutaio. In soffitta aveva ritrovato il vecchio violino che aveva imparato a suonare in America da un olandese e riprese ad esercitarsi, riacquistando l’abilità di un tempo. Decise quindi di costruire un nuovo violino dal suono “personalizzato”, forgiando il legname scelto con le sue mani e, dopo vari tentativi, ottenne finalmente uno strumento con la melodia gradita al suo orecchio. Ne costruì diversi in quegli anni. Spesso invitava nella sua casa i ragazzi delle case vicine per fargli provare il suo violino.
Poco fa, mentre ripensavo alla sua vita di cui ho fatto solo un piccolissimo riassunto, ho fatto un giro all’interno del borgo per scattare alcune foto e ho incontrato una simpatica signora di 83 anni che lo ricorda molto bene. Mi ha raccontato che i suoi suoceri conoscevano lo stregone e che addirittura, quando lei era una giovane sposa arrivata qui da un altro paese, portarono da lui una delle sue bimbe perché di notte piangeva sempre, ma purtroppo non ricorda se le sedute dal guaritore erano servite a far calmare la pargoletta. Sempre loro, trovarono Silvio in casa in condizioni precarie negli ultimi giorni della sua esistenza.
Gli ultimi anni erano stati per lui una sofferenza a causa di forti dolori alle gambe che lo costringevano a camminare con una forca che in passato portava con sé come possibile arma da difesa nei confronti dei malviventi che poteva incontrare per strada. Gli ultimi tempi i dolori peggiorarono, tanto che camminava con due bastoni. Era dimagrito e non si curava della sua igiene. Non vedendolo più in giro i vicini gli portavano da mangiare, lasciandogli il piatto di minestra davanti alla porta, finché un giorno si accorsero che i piatti non venivano più toccati ed entrarono nella sua casa temendo di trovarlo morto. “Io muoio quando mi pare, e quando creperò mi porterà via il diavolo!”, diceva sempre. Lo trovarono al piano superiore della casa, in stato confusionale seminudo su una rete senza materasso.
Trasportato a braccia nella grande sala della vecchia osteria, il medico che lo visitò stabilì che era in fin di vita, cosicché i parenti decisero di trasportarlo a Roteglia dove lo fecero visitare da un altro medico, ma la vita terrena di Silvio ebbe fine dopo alcuni giorni a 81 anni. Era il 26 ottobre 1964.
Sono passati quasi 55 anni da allora, e la storia dello stregone della Canalaccia è ancora viva nel ricordo di chi lo ha conosciuto e l’ha tramandata ai propri figli per farla giungere fino a noi. Per gli approfondimenti, le testimonianze, le foto e i documenti raccolti si rimanda ai testi specifici.
BIBLIOGRAFIA
Lo stregone della Canalaccia (Dott. Luigi Bonaldi, 2005)
I misteri della Canalaccia (Dott. Luigi Bonaldi, 2008)
Delitti e Misteri sul crinale tosco-emiliano (Dott. Luigi Bonaldi, 2017)